mercoledì 24 marzo 2010

Giovedì Rossettiani: domani incontro con Roberta Dapunt

Roberta Dapunt è nata nel 1970 e vive in Alta Val Badia. Ha pubblicato le raccolte di poesia OscuraMente (1993), La carezzata mela (1999) e La terra più del paradiso (Einaudi, 2008) e realizzato, assieme al Maestro Paolo Vergari, una registrazione su CD (2001), intitolata del perdono - poesia e musica per pianoforte. Sue opere poetiche si trovano in varie riviste letterarie, tra le quali: «Arunda», «Tras», «Ladinia», «Entschluss», «Filadressa», «Sturzflüge» e i «Quaderni» del Fondo Moravia.
Scrive in italiano e ladino. I suoi versi sono caratterizzati da inquietudine e armonia insieme, da un percorso religioso tormentato e puro. Le immagini che sceglie sono di morte e di naturalità e il suo sguardo segue le stagioni e gli animali nel silenzio delle sue montagne e dell’anima. Per il critico Giovanni Tesio si tratta di una voce folgorante e di spontanea innocenza che approda alla “semplicità” attraverso «una dura macerazione, un vero e proprio percorso di spoliazione».
Qualcun altro ha avvertito «la voce di una necessità “impoetica” in questa poesia; di una musa che ha le mani callose della terra incolta, del raccolto e del latte della madre. Poesie scritte in altitudine, quasi per metafora di una separazione, di una lontananza dalla lingua dei letterati, tramandata in varianti e consonanze che non ci riguardano… Così le parole appaiono sfrondate,rudimentali, non rinunciano alla scorza dell’origine. Mai si avvicinano alla bellezza, forse per paura
di sporcarla, di costringerla al sacrificio della rinuncia a un estetismo. Poesia di mani, di dure mani che conoscono la fatica del vivere e della resistenza, mani di letame e di silenzio. E’ una dichiarazione di poetica a dirci che la poesia non si ammanta del lusso ma dell’umile dettato di una porta, socchiusa tra il buio di una stanza e il mondo che la richiama alla luce. Capace di raccontarci perfino la morte di una gallina come fosse la scena di un supplizio che riguarda tutti.
Insomma, la poesia non è serva; neanche delle stesse parole: “Aprirci, venderci come puttane alla malinconia/per un misero verso, per le poche parole e una/sfiorata poesia”.
Sappi che mentre scrivo non ho ossa né carne, / che ciò che di me rimane / è simile allo spazio buio della stalla, / e dentro smarrisco il tempo e dentro io ritrovo un posto / in cui stare. In cui meravigliarmi. / E nel buio della stalla divento domestica e lavoro. / Urna felice è la greppia colma del fieno raccolto. / Scrigno fedele di valori sempre uguali. / E poi la poesia, quanto vorrei tracciarla di più.
(Le intime riflessioni da La terra più del paradiso, Torino, Einaudi, 2008.)

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